Quarto Convegno nazionale della SIAM – 2023

SIAM: Società Italiana di antropologia Medica
2023

Napoli, 26-28 gennaio 2023

4° Convegno Nazionale della
Società Italiana di Antropologia Medica (SIAM)

Organizzato da SIAM
in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Sociali
dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
e con il patrocinio della Fondazione Alessandro e Tullio Seppilli

Fini del mondo, fine dei mondi. Re-immaginare le comunità

Napoli, 26-28 gennaio 2023

Informazioni generali e Call for papers

In un orizzonte sociale logorato da crescenti minacce e da tragedie già accadute o in corso (la pandemia, il
riscaldamento globale, le contaminazioni dell’ambiente da parte di agenti tossici, il conflitto bellico in Europa che
si aggiunge a quelli ininterrotti dell’Africa postcoloniale o in Medio Oriente, lo spettro di una guerra nucleare…),
il bisogno di ritornare al pensiero di Ernesto de Martino e al suo progetto incompiuto sulle apocalissi si fa per
l’antropologia italiana quanto mai urgente. E urgente diventa, al tempo stesso, immaginare un impegno concreto
perché l’antropologia medica possa offrire, nel segno di quello che è stato l’insegnamento di Tullio Seppilli, un
contributo critico all’analisi e all’ideazione di possibili soluzioni per l’attuale crisi sanitaria, ecologica, sociale.
Il prossimo convegno della Società Italiana di Antropologia Medica vuole essere un tempo di confronto, di
riflessione e di scambio al quale molte e molti hanno contribuito in questi mesi immaginando possibili temi di
discussione, in un orizzonte segnato dalle sfide di una sindemia che ancora non è cessata, e di quelle che si
annunciano. Non si tratta di riflettere soltanto sui temi della malattia, della morte o della salute, né di analizzare le
vecchie e nuove forme di disuguaglianza che marcano sempre più l’accesso alle risorse sanitarie, ma di riconoscere
in anticipo – con gli strumenti della nostra disciplina, e con il dialogo serrato con altri ambiti di sapere – i segni
della minaccia e del pericolo e ideare contromisure e soluzioni praticabili ed efficaci.
L’incontro ha dunque l’ambizione di interrogare i numerosi scenari di incertezza del nostro tempo: dalla condizione
di coloro che provengono dal teatro di una guerra a noi vicinissima, alle faglie aperte dalla crisi pandemica nel
rapporto fra cittadini e istituzioni, nel segno di un’ingiustizia sanitaria la cui mappa è stata scritta anche con
l’ineguale disponibilità dei vaccini e con le politiche che hanno intrecciato il riconoscimento della loro efficacia con
il diritto alla mobilità internazionale. Muovendo dall’analisi del ruolo che hanno oggi le tecnologie mediche nel
disegnare l’ordine sociale delle cose e delle persone (spesso attraverso quelli che sono fra gli indici più sensibili
dell’esperienza dell’essere al mondo: il tono dell’umore e il dolore), il convegno vuole interpellare anche i
contraddittori profili della giustizia riproduttiva e l’emergere di forme di sofferenza che direttamente si collegano
al deterioramento degli ambienti di vita o alla percezione di una catastrofe che mina i presupposti stessi dell’abitare.
Una nuova forma di angoscia territoriale che, se rinvia ancora una volta alle intuizioni demartiniane, dall’altro invita
i partecipanti a interrogare le trasformazioni degli immaginari apocalittici.
Lo sforzo al quale l’incontro invita tutte e tutti è, infine, pensare questi problemi, queste inquietudini e questi
orizzonti di crisi anche con gli occhi e le categorie di chi ha già sperimentato l’apocalisse, facendo tesoro di quei
saperi minori che – di fronte all’apocalisse coloniale, alla cancellazione dell’habitat dei popoli che la subirono, al
crollo del loro tasso riproduttivo – hanno reagito e pensato ai modi per sopravvivervi. È anche alla luce di tali
sguardi ed esperienze alternativi a quelli egemonici, e alle opzioni che essi prefigurano, che l’antropologia può
contribuire a ideare, proporre e attuare forme di vita associata, di gestione delle crisi e dei confitti, di tutela e
promozione della salute che possano configurarsi come soluzioni percorribili alle apocalissi oggi incombenti.

Le sessioni tematiche parallele per le quali vale questa Call for papers saranno prevedibilmente articolate
nel modo seguente:

1) “L’altro lato della guerra: corpi, genere e salute nell’esperienza di profughi, rifugiati e richiedenti
asilo”. Coordinatori: Gianfranca Ranisio, Università di Napoli Federico II (ranisio@unina.it); Eugenio
Zito, Università di Napoli Federico II (e.zito@unina.it).
Le guerre, tra le altre conseguenze, hanno anche quella di creare un’umanità in fuga, spesso privata della propria
soggettività per rientrare in alcune tipologie sulle quali si eserciteranno le politiche assistenziali globali. Le
categorie di profughi, rifugiati e richiedenti asilo diventano così oggetto di “cura e di controllo” da parte degli
interventi umanitari e delle politiche nazionali e sovranazionali. Nella prospettiva biopolitica la guerra è infatti
anche strumento di ordine sociale, meccanismo che provoca rotture e stabilisce relazioni diseguali. Il potere
politico ha il ruolo di iscrivere il rapporto di forze nelle istituzioni e nei corpi dell’umanità coinvolta. I corpi di
profughi, rifugiati e richiedenti asilo, da “governare” secondo le politiche umanitarie, sono però anche portatori
di un tempo complesso, fermi in un passato da cui non riescono a distaccarsi eppure bisognosi di proiettarsi
in un futuro nuovo. La guerra ha distrutto la loro relazione con il mondo, ha modificato i loro sistemi di
appartenenza, ha colpito la loro salute. Alcuni hanno una storia sanitaria, acuita dalle difficoltà degli itinerari
intrapresi, che si caratterizza per una frammentazione dei percorsi di cura, con differenze per genere ed età.
Altri hanno bisogno di interventi sanitari per riparare alle violenze e deprivazioni subite. In questo ambito,
quella delle donne rifugiate rientra pienamente nella condizione di “vita da salvare”. A partire dalla prospettiva
biopolitica è importante analizzare criticamente come l’intervento umanitario si rivolga verso categorie
considerate “vulnerabili”. Le donne rientrano in un immaginario che le rappresenta come soggetti vulnerabili
da proteggere, in particolare se in stato di gravidanza o con bambini. Infatti nei programmi umanitari
particolare rilevanza è rivolta alle pratiche di cura e assistenza alla salute femminile e all’infanzia nei confronti
di vittime di conflitti nel Sud del mondo, considerate in posizione di subalternità culturale. La guerra RussiaUcraina apre differenti scenari negli interventi umanitari, perché nelle condizioni di rifugiate sono ora donne
europee con cui si condividono in parte sistemi di valori e modi di vivere e gestire la salute. Il contributo dello
sguardo antropologico consiste nel leggere criticamente, attraverso l’etnografia, tali complesse dinamiche, per
tentare di comprendere l’esperienza di questa umanità oltre la dimensione privata, e attraverso questa
connettere soggettività, genere, salute, sofferenza, vulnerabilità e potere. La sessione accoglierà pertanto
contributi in prevalenza etnografici che tocchino una o più delle questioni enunciate.

2) “Crisi climatica e nuove forme di sofferenza. O come umani e non umani reagiscono alla
distruzione dei territori e dell’ambiente”. Coordinatori: Roberto Beneduce, Università di Torino
(roberto.beneduce@unito.it); Andrea Ravenda, Università di Torino (andreafilippo.ravenda@unito.it).
Il tema della crisi climatica e ambientale ha assunto un ruolo centrale nel dibattito scientifico così come in
quello pubblico, stimolando ricerche e riflessioni teorico-metodologiche articolate secondo prospettive
transdisciplinari. Si è così sviluppata una volontà conoscitiva e analitica che, trovando molteplici scenari di crisi
nei segni evidenti di una vita esposta, di un mondo danneggiato (Petryna 2002; Tsing, 2005; Swanson, Gan,
Bubant 2017; ecc.), si è rafforzata a seguito della recente sindemia, direttamente connessa alla crescente
invasività dell’attività umana in differenti domini. Tali processi, resi ancora più complessi e caotici dalla
crescente mobilità delle persone, dalla contrazione delle aree coltivabili e dalla moltiplicazione di conflitti
bellici, stanno massicciamente contribuendo alla diffusione di epidemie nonché all’emergere di nuove patologie
(Keck 2020; Seeberg, Roepstorgg, Meinert 2020; ecc.). Ma la distruzione dell’ambiente, il degradarsi dei territori
e della relazione fra persone e luoghi, favorisce – al di là di patologie da tempo descritte dagli esperti (tumori,
insufficienza renale, aborti spontanei, problemi di sviluppo, ecc. come nel caso delle Antille, avvelenate dal
clordecone) – l’emergere di forme di sofferenza psichica o problemi di salute, particolarmente evidenti nelle
comunità che stanno sperimentando in modo diretto le conseguenze della crisi ambientale, della
contaminazione dei loro luoghi di esistenza, e dell’accresciuta frequenza di eventi climatici catastrofici
(Albrecht 2010, 2012; Jalais 2017; ecc.). Ciò a cui assistiamo è una forma inedita di “angoscia territoriale”, che
impone un’esplorazione adeguata.
Le diverse forme storicamente caratterizzate di sfruttamento delle risorse e di violenza inflitta a esseri e luoghi,
e le nuove crisi epidemiche, vedono sempre più incerte le soglie tra biologico e politico, così come tra umano
e non umano. Di questi intrecci, il dibattito avviato negli ultimi anni dai temi dell’ANT, dell’antropocene, del
capitalocene e dell’ontological turn ha già mostrato tutta la densità, sebbene poco investigato rimane l’impatto
propriamente psichico di questi devastanti mutamenti, l’esperienza di perdita e di spossessamento che li
accompagna, e il rischio di un’accademia che si appropria – attraverso queste “mega-categorie carismatiche”
(Reddy 2014) – di concetti indigeni, senza però coinvolgere i rappresentanti delle comunità che li hanno
elaborati nel corso del confronto con apocalissi e minacce sperimentate ben prima di noi.
Una postura trans/interdisciplinare (Petryna 2022) critica e multimodale del sapere antropologico appare in
definitiva, oggi più che mai, urgente e necessaria per cogliere la pressante visione di un mondo che appare
proiettato verso la propria “fine” (sindemie, tecnologie belliche invisibili, incendi, ecc.), dominato dal diffuso
senso di catastrofe e di confusione (il caso della sindemia e della infodemia lo rileva efficacemente): di
un’apocalisse inevitabile. Tale prospettiva, che si alimenta anche dei lavori sulle diverse fini del mondo
tematizzate da miti e narrazioni già oggetto di riflessione negli scorsi anni, trova riscontri molteplici anche
nell’antropologia medica, che da tempo ha rivolto la propria attenzione alle questioni evocate e alle
sperimentazioni biosociali che vanno di fatto realizzandosi sullo sfondo di crescenti forme di disuguaglianza,
come già un tempo nelle colonie, ma anche su quello di nuove forme di mobilitazione e di resistenza. La
salute, come concetto ontologicamente trasversale, si costituisce sempre più come spazio conteso, fra conflitti
che fanno emergere sempre più significativamente non solo l’assedio dei territori o i limiti de generici modelli
bio-psico-sociali, ma l’esigenza di pensare a un’ecologia decoloniale (Ferdinand 2019). In un tale quadro di
complessità, anche metodologica (quale postura assumere per analizzare le molteplici forme della crisi? Quali
conoscenze si rendono necessarie all’antropologia perché il suo contributo possa davvero essere rilevante?
Che cosa rivela oggi all’antropologo medico la “documentazione psicopatologica”?), la sessione vuole
accogliere contributi teorici e ricerche etnografiche che esplorino, in tutta la loro molteplicità, le articolazioni
globali della crisi ambientale con le specificità locali incarnate dai saperi e dalle esperienze di vita di coloro che
si ammalano o soffrono, e le espressioni di lotta che in diversi luoghi del mondo testimoniano la tenace
volontà di reagire all’aggressione realizzata contro gli spazi e i corpi, opponendosi al sentimento di catastrofe
che pervade il nostro tempo.

3) “Diritti, disuguaglianze e passaggi di età. Crisi e transizioni”. Coordinatrici: Donatella Cozzi,
Università di Udine (donatella.cozzi@uniud.it); Cristina Papa, Fondazione Seppilli
(cristina.papa@unipg.it); Patrizia Quattrocchi, Università di Udine (patrizia.quattrocchi@uniud.it).
Tra le conseguenze sociali dell’ epidemia di Covid-19 possiamo annoverare anche l’erosione dei diritti
attraverso l’accentuarsi delle disuguaglianze riguardo: alla salute con le disuguali esposizioni alla malattia e alle
possibilità di accesso alle cure, all’istruzione e alla socialità (per la didattica a distanza che ha penalizzato
soprattutto gli studenti più poveri), all’alimentazione (messa in pericolo dalla perdita parziale o definitiva del
lavoro e dall’aumento della povertà), al benessere in senso lato (dall’isolamento delle persone anziane alla
contrazione della agentività e della vita relazionale dei bambini e degli adolescenti). Disuguaglianze nell’accesso
ai diritti che hanno colpito di più richiedenti asilo e MSNA. A questa situazione si aggiungono le conseguenze
della guerra in corso tra la Russia e l’Ucraina. Questo panel intende raccogliere interventi che approfondiscono
come la crisi legata alla pandemia e alla guerra abbia aggravato le disuguaglianze sociali e il godimento dei diritti
della persona. Saranno privilegiati due temi tra loro connessi quello della sicurezza e della giustizia alimentare
e il diritto alla salute con una particolare focalizzazione sulle forme con cui i passaggi di età si ripercuotono
sulla attribuzione e sul godimento di diritti. Sono i bambini sotto i 3 anni e gli anziani i più colpiti, ma sono
anche gli adolescenti in quanto soggetti “di margine” che attraverso i disturbi del comportamento alimentare
manifestano il loro disagio attraverso il cibo. Da un lato le condizioni oggettive di vita, dall’altro le
rappresentazioni socioculturali delle transizioni riguardo alle età producono esclusione e disuguaglianze. La
ricerca antropologica sul passaggio dall’infanzia alla preadolescenza e sull’invecchiamento evidenziano la
difficoltà del sistema neoliberale a pensare la transizione, che si rivela attraverso la medicalizzazione delle età
della vita, quelle fasi che Mario Martinez (2003) chiama ‘biocultural portals’. Da un lato, alcuni approcci cercano
di ridurre la complessità della transizione a tappe, punti fermi, forme normate di adeguatezza; dall’altro si
sottolinea la contraddizione tra una attribuzione progressiva di diritti normata giuridicamente (dalla
Dichiarazione di Helsinki al progetto ERIC Ethical Research involving Children) e le pratiche che li negano.
Basti pensare al consenso alle pratiche mediche di bambini e anziani. La sessione accoglierà contributi,
principalmente etnografici, che si muovano lungo le linee di indagine qui delineate.

4) “Antropologia medica e promozione della salute: ripensare i servizi sociosanitari e sperimentare
le comunità di cura attraverso la pandemia”. Coordinatori: Ivo Quaranta, Università di Bologna
(ivo.quaranta@unibo.it); Massimiliano Minelli, Università di Perugia (massimiliano.minelli@unipg.it).
La pandemia da Covid-19 ha senza dubbio generato un effetto di svelamento dei presupposti impliciti su cui
si fonda il nostro ordine sociale. Appare oggi quanto mai necessario avviare una riflessione su come tale
svelamento abbia portato a ripensare le pratiche di prevenzione e di promozione della salute, tanto a livello
istituzionale, quanto a livello comunitario. La relazione fra questi due livelli è infatti terreno fertile di analisi
critica, vista la sua differente declinazione nei diversi contesti regionali, nazionali e internazionali e i diversi
modi di confrontarsi con le ineguaglianze sociali e le vulnerabilità strutturali.
Nello scenario in mutamento della pandemia, le reiterate situazioni di emergenza hanno contribuito a rendere
più complesso, articolato e contraddittorio il quadro delle politiche sociosanitarie e delle pratiche di salute
comunitaria. A fronte di iniziative che hanno sperimentato nuovi spazi di incontro e operatività, immaginando
possibili comunità di cura, i servizi di salute territoriale hanno attraversato una complessa fase di ridefinizione
delle politiche del rischio, tra richieste di delega e mandato di controllo. Le iniziative che in questo periodo
stanno prendendo forma all’insegna del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza nel contesto italiano, inoltre,
concorrono ad infittire ulteriormente il quadro delle dinamiche in corso e i tentativi di mettere a sistema le
lezioni apprese a seguito della crisi generata dall’emergenza sanitaria.
Attraverso prospettive interdisciplinari e sguardi etnografici sulle diverse realtà territoriali, obiettivo della
presente sessione è mettere a punto strumenti di analisi critica delle trasformazioni in atto e favorire il
confronto in merito alla combinazione di pratiche partecipative, promozione della salute e ripensamento dei
servizi per le comunità.

5) “Generare nella crisi, generare delle crisi. Tecnologie della riproduzione e della parentela, saperi
minori e impegno sociale in un mondo inguaiato”. Coordinatrici: Corinna S. Guerzoni, Università di
Bologna (corinna.guerzoni@unibo.it); Simona Taliani, Università di Torino (simona.taliani@unito.it).
Le intersezioni tra ingiustizie riproduttive, cambiamenti climatici e pandemia hanno avuto un impatto diretto
sulla riproduzione (Han, Tomori 2022). In questo momento storico, sia a livello globale sia a livello locale, la
definizione dei diritti riproduttivi è un’arena di contestazioni pubbliche e politiche in numerose parti del mondo
(Guerzoni, Mattalucci 2022), come i recenti sviluppi sulle politiche dell’aborto negli USA e in Polonia mostrano
chiaramente. Mentre la crescita della popolazione è considerata uno dei problemi cardine relativi alla
sostenibilità ecologica del pianeta, il procrastinare della riproduzione e il declino della natalità sollevano
apprensioni in una parte consistente di mondo. L’impatto della pandemia (come ben emerge dall’ultima
indagine condotta da Rosina et al., 2022) si aggiunge ad altre variabili apocalittiche, che costringono la riproduzione
– come processo meta-individuale – dentro un percorso accidentato, solcato da forze antagoniste che ne
segnano e ridisegnano i destini riproduttivi. Se da un lato, una economia neoliberale aggressiva incentiva forme
di produzione al femminile incompatibili con l’esperienza stessa della genitorialità tanto da spingere la
ricercatrice Neymat Chadha (2021) a parlare di rising hysterectomies per le lavoratrici della canna da zucchero in
India, dove il 30% delle donne del distretto del Beed si fa asportare l’utero; dall’altro, la precarietà del sistema
ecologico, le politiche ambientali della riproduzione (Lappé, Hein, Landecker 2019) e le conseguenti crisi
ambientali rendono genitori e minori degli attori sociali impegnati nel produrre nuove conoscenze e sensibilità
al fine di proteggersi, per garantire uno stato di salute minimo ed evitare di ammalarsi a chi continua suo
malgrado a vivere in condizioni di elevato rischio. È a questo proposito eloquente la mobilitazione delle madri
giapponesi intorno alle radiazioni del cibo, nei territori limitrofi a Fukushima, che mostra la loro volontà di sapere
qualcosa di un nutrimento potenzialmente tossico per i loro figli (cfr. Freiner, 2014; Slater, Morioka, Danzuka
2014; Sternsdorff-Cisterna, 2015; Holdgrün, P. e Holthus, 2016).
Alcune delle “angosce territoriali” di cui Ernesto De Martino parlava in Sud e Magia e ne La fine del mondo –
articolando parentela, legame filiale, culture dell’infanzia e crisi della presenza – sembrano trovare oggi nuova
linfa e amplificare, nella società moderna stessa (e non più solo in quella contadina), il rischio antropologico
permanente del finire prima, che non poi. Se i suoi erano gli anni sciagurati del segreto atomico e della guerra
nucleare, i nostri sono quelli degli sciagurati cambiamenti climatici, degli sciami pandemici, della “guerra
mentale” (cognitive warfare) con l’inevitabile sconvolgimento del rapporto tra l’umano e il non-umano (un nonumano inteso non come “natura in sé”, ma – come scriveva De Martino – come natura entro i margini di una
cultura scellerata e di una scienza che rischia di diventare sempre di più moralmente indifferente). A partire da
questa prospettiva e in un’ottica di intersezione, il Panel si propone di far dialogare ricercatori e ricercatrici che
hanno lavorato tra riproduzione, parentela e preoccupazioni relative all’ambiente (Dow, Lamoreaux 2020);
giustizia epistemica, giustizia riproduttiva (Luna & Luker 2013) e giustizia riproduttiva ambientale (Hoover
2017, 2018); disabilità, riproduzione e mobilitazione sociale; fertilità/infertilità e precariato; scelte riproduttive
in contesti di crisi politica e/o ambientali ed esercizio dei diritti; tecnologie riproduttive e pratiche affini (social
egg freezing ecc.); saperi della salute e della cura “minori”, tra militanza e scienza. In questa cornice, si raccolgono
proposte su quelle che potremmo definire delle “micro-politiche del pericolo” in un mondo sempre più
inguaiato, accidentato e, per questo, sempre più mobilitato e attento a costruire tecnologie del sé materno (o
paterno), del legame filiale e delle emozioni compatibili con questa epoca di insicurezza demografica. Seguendo
Tsing e Ebron (2017), proponiamo un Panel che sia occasione per raccogliere storie capaci di “individuare il
pericolo”, o meglio i vari pericoli, innumerevoli e interconnessi, quando è in gioco la riproduzione, la nascita e
la crescita di una generazione costituzionalmente a rischio: storie che riescano a costruire narrazioni intorno ad
esso, ai sintomi che vengono enunciati e al contempo denunciati, finanche ad anticipare la crisi e a produrre un
nuovo sapere e una mobilitazione sociale per uscirne insieme, individuando (quando possibile) soluzioni
socialmente valorizzanti perché comuni.

6) “Pharmakon. Farmaci e vaccini tra rimedio e apocalisse”. Coordinatori: Chiara Moretti, Università
di Bologna (chiara.moretti22@unibo.it); Giovanni Pizza, Università di Perugia (giovanni.pizza@unipg.it);
Pino Schirripa, Sapienza Università di Roma (pino.schirripa@uniroma1.it).
La pandemia ha riproposto con stringente attualità i discorsi e le pratiche legate all’uso dei vaccini e dei farmaci.
Per quel che riguarda i vaccini, da una parte, gli atteggiamenti e le prospettive antivacciniste, già presenti nei
differenti contesti sociali e che negli ultimi anni avevano già guadagnato una propria visibilità, hanno occupato
un posto importante nella scena pubblica, sia pur rappresentando un variegato campo di opinioni e pratiche
che è difficile ridurre a una sola prospettiva. Dall’altra parte, la gestione delle politiche sanitarie, dalle pratiche
di controllo alla non-liberalizzazione dei vaccini, è entrata a pieno nell’arena politica e sociale, rompendo in
maniera trasversale movimenti e gruppi. Si verifica poi un ulteriore fenomeno che, per il momento, sembra
avere ricevuto minore attenzione: il considerevole aumento di uso di farmaci, soprattutto ansiolitici-
antidepressivi e antidolorifici, che circolano sia attraverso canali formali e ufficiali sia in maniera clandestina.
Ciò che unisce i due fenomeni non è tanto la loro contemporaneità. In tutti e due i casi si ha a che fare con
quello che possiamo definire “la materialità della cura”. Un oggetto che circola, viene distribuito, si scambia,
in maniera legale o illegale, e il cui fine dovrebbe essere quello terapeutico. Per diversi aspetti i due ambiti presi
in esame permettono di vedere come l’aspetto terapeutico sia messo in questione, ridando dunque al
lemma pharmakon la sua originaria ambiguità, e come esso diventi la posta in gioco, materiale e simbolica, di
complesse negoziazioni politiche. Ragionare sulla materialità del farmaco, così come dei vaccini, permetterà
inoltre di indagare le diverse mediazioni sociali che lo caratterizzano, compongono e plasmano come oggetto.
Consentirà, infine, di riflettere su come pratiche e discorsi lascino emergere l’ambiguità del farmaco: da
rimedio a strumento di controllo se non addirittura di distruzione, a seconda della peculiarità dei contesti e
delle circostanze. La sessione accoglierà contributi, principalmente etnografici, che si muovano lungo le linee
di indagine qui delineate.

7) “Nuovi immaginari apocalittici – Salute e orizzonti culturali della crisi”. Coordinatori: Fabio Dei,
Università di Pisa (fabio.dei@unipi.it); Luigigiovanni Quarta, Sapienza Università di Roma
(luigigiovanni.quarta@gmail.com).
Negli ultimi anni della sua vita, Ernesto de Martino stava spostando il proprio sguardo etnografico verso nuovi
territori. Negli anni Cinquanta, aveva riconosciuto nelle culture subalterne del Mezzogiorno d’Italia il campo
dove si poteva studiare con maggior profitto il tema del “terrore della storia”, e identificare i dispositivi miticorituali di protezione e di riscatto che la cultura tradizionale metteva a disposizione dei soggetti e delle comunità
umane. Negli anni Sessanta, il suo interesse si sposta verso dimensioni più ampie della società contemporanea,
con i suoi impetuosi mutamenti. Sul piano etnologico o extraeuropeo, non sono più i “primitivi” ad attrarre la
sua attenzione, ma i movimenti di decolonizzazione e le loro specifiche modalità di pensiero “apocalittico”;
sul piano “interno”, non più le “plebi rustiche” colte in una compattezza e in un isolamento che non esistono
più, ma le dinamiche della nuova società e cultura di massa. Il progetto incompiuto su La fine del mondo esprime
appieno questo nuovo interesse. Come si manifesta il terrore della storia in queste mutate condizioni storiche
(e in questa fase così diversa delle relazioni tra piano egemonico e subalterno)? De Martino risponde
analizzando diverse forme dell’immaginario apocalittico a lui contemporaneo: un immaginario che può essere
elaborato in termini religiosi (i movimenti messianici, i cargo cults) o politici (l’apocalittica marxiana), oppure
venir incorporato in prodotti della letteratura alta (Sartre, Moravia e l’esistenzialismo) o bassa (come la
fantascienza). Il rischio della distruzione nucleare del pianeta, ad esempio, appare come una tematica pervasiva
su tutti questi livelli. Ma in che modo la cultura contemporanea elabora nuove modalità mitico-rituali di
protezione o riscatto dal rischio radicale di non esserci, del collasso della coerenza del Sé e insieme di quella
del “mondo”? Si può riattivare l’antico meccanismo del rito che mima la crisi per risolverla poi in un orizzonte
di senso destorificato? De Martino sembra pensare di sì: con la differenza, però, che nell’orizzonte
umanisticamente orientato delle società secolarizzate e individualistiche contemporanee non è più possibile un
rito che si affidi a una realtà numinosa e metastorica. Se in Sud e magia il rito era definito come un modo di
“stare nella storia come se non ci si fosse”, oggi (lo afferma de Martino nel quasi dimenticato dibattito con
Camillo Pellizzi) abbiamo “preso coscienza” di quel come se: e ci è dunque data soltanto la possibilità di un
simbolismo consapevolmente umanistico, tutto interno alla storicità.
Ora, l’antropologia medica ha inglobato nel suo strumentario concettuale la nozione demartiniana dell’efficacia
terapeutica del simbolismo mitico-rituale, applicato alle culture tradizionali o almeno ai soggetti subalterni e
marginali. Si è invece tenuta piuttosto lontana dagli sviluppi cui l’etnologo napoletano si stava sempre più
avvicinando. Questo panel vuole appunto chiedersi se è possibile integrare nella disciplina le tematiche appena
accennate: il “terrore della storia” nella società globale, gli strumenti culturali della sua configurazione
(numinosa o umanistica), le forme del “mito” e del “rito” che conferiscono orizzonte culturale alla “fine del
mondo”. A partire dalle suggestioni demartiniane, sono incoraggiate comunicazioni di ricerca e riflessioni
sull’evoluzione degli immaginari apocalittici negli ultimi decenni, in campi come il cinema, la letteratura e altre
forme della cultura di massa, i movimenti politici e religiosi, il pensiero filosofico e socio-antropologico.
Particolarmente urgente è analizzare i modi in cui il tema della fine del mondo – o di un mondo – si è presentato
come chiave di lettura di crisi globali degli ultimi anni: dal timore del terrorismo alla crisi ambientale ed
energetica, dalla pandemia da Covid-19 alla guerra in Ucraina. In tutti questi casi è interessante da un lato
esaminare il modo in cui gli intellettuali hanno configurato la crisi e risposto ad essa nei termini di ben
consolidati repertori apocalittici, teorici, narrativi e iconici; dall’altro, documentare i modi in cui tali retoriche
e tali immagini si sono consolidate in topoi, in narrazioni diffuse e pervasive, trasmesse principalmente
attraverso le forme della comunicazione di massa. Vorremmo far emergere la rilevanza di tutto ciò con una
più generale antropologia della salute; e chiederci quali prospettive la nostra disciplina è in grado di offrire
rispetto a quelle che hanno proposto alla crisi risposte in termini di “trauma”, di counseling e terapie
psicologiche e individuali.

La scadenza per l’invio delle proposte di contributi alle sessioni tematiche parallele è il 31 ottobre 2022: le proposte
dovranno essere inviate ai coordinatori della sessione a cui si vuole contribuire e dovranno contenere un titolo e
un riassunto di massimo 1200 caratteri (spazi inclusi). Ove accettato dai coordinatori, il contributo non dovrà
superare, in sede di Convegno, il tempo massimo di 15 minuti.

La lingua ufficiale del Convegno sarà l’italiano.

Iscrizione al Convegno

  • Le quote di partecipazione al Convegno sono state così fissate:
    per studenti, dottorandi, precari della ricerca e soci SIAM: quota di euro 25 (che comprende anche due buoni
    pasto per i pranzi di venerdì 27 e sabato 28 gennaio e un ampio sconto su tutti i volumi cartacei della rivista
    “AM” e sui volumi della collana “BAM”);
  • per tutti gli altri partecipanti al Convegno, ivi compresi relatori e contributori che non rientrano nella categoria
    precedente: quota di euro 50 (che comprende anch’essa due buoni pasto per i pranzi di venerdì 27 e sabato 28
    gennaio e un ampio sconto su tutti i volumi cartacei della rivista “AM” e sui volumi della collana “BAM”).

Relatori e contributori pagheranno la quota di iscrizione, una volta ricevuta la comunicazione di accettazione del
proprio paper, entro il 15 dicembre 2022; le quote dovranno essere versate tramite bonifico bancario direttamente
sul conto della SIAM (IBAN: IT86I0503403200000000010458). Per i soci, si consiglia, prima di effettuare il
bonifico, di verificare lo stato dei pagamenti delle quote associative scrivendo all’indirizzo
siam@antropologiamedica.it.

I soli uditori potranno invece versare la propria quota, anche in contanti, al momento di ingresso nella sede del
Convegno.

Comitato organizzatore: Roberto Beneduce, Simona Taliani, Eugenio Zito, Donatella Cozzi, Alessandro Lupo,
Giovanni Pizza, Gianfranca Ranisio, Pino Schirripa, Alberto Baldi, Tamara Mykhaylyak, Milena Greco, Sabrina
Vitale.

Per informazioni: convegnosiam@antropologiamedica.it

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