A proposito del riconoscimento dei diritti dei/delle figli/e e delle famiglie omogenitoriali

Dichiarazione della Società Italiana di Antropologia Culturale
24 marzo 2023

Negli ultimi giorni la scena mediatica e il dibattito pubblico si sono infiammati per questioni “antropologiche”. A seguito della bocciatura, da parte della Commissione Politiche europee del Senato, della proposta di creazione di un certificato europeo di filiazione, teso ad ammettere diritti paritetici anche per i figli di coppie omogenitoriali, si è aperto un acceso dibattito politico che ha visto e vede coinvolti esponenti dei partiti di governo e dell’opposizione, insieme a giornalisti vicini alle sensibilità degli uni e degli altri. Come già accaduto in altre occasioni nelle quali l’attenzione politica e mediatica si è accentrata su temi come la “famiglia”, il “matrimonio”, la “procreazione” e la “filiazione”, la sessualità, l’identità di genere e il corpo, anche in questo caso abbiamo sentito, da destra e da sinistra, evocare “l’antropologia”. Ad esempio, nel corso di un infervorato dibattito televisivo centrato sul tema dei diritti dei figli di coppie omogenitoriali , la Ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità del Governo Meloni ha sostenuto che, nel caso specifico, “il problema è il modello antropologico e giuridico della filiazione. Siamo nati tutti dal grembo di una madre: quella (intendendo la madre “biologica”) non è più una madre? È un contenitore che va escluso dal modello che stiamo costruendo?”.

Dunque, è questione di modelli “antropologici”. Di solito, nel dibattito pubblico nazionale, tanto da posizioni conservatrici, quanto spesso anche progressiste, le evocazioni di una qualche dimensione “antropologica” sono introdotte per invocare una certa idea di “natura umana”. Nel caso della Ministra Roccella una tale accezione riduzionista sembrerebbe mitigata dalla nozione di “modello”, che parrebbe far pensare all’evocata “dimensione antropologica” come ad un qualche tipo di costruzione culturale, storica e sociale dei fenomeni trattati. Di fatto, però, il successivo riferimento al “dato” del “grembo di una madre”, come anche i più espliciti e schematici commenti di altri esponenti della maggioranza di governo (non si può discutere “il fatto che la mamma si chiama mamma, che il papà si chiama papà e che il bimbo viene al mondo se ci sono una mamma e un papà”, ha commentato il vicepremier Salvini) lasciano pochi dubbi sul fondamento naturalista dell’immaginario “antropologico” di una parte rilevante del mondo politico e intellettuale nazionale.

Come Società italiana di antropologia culturale (SIAC) riteniamo che anche nel caso delle attuali polemiche legate ai diversi modi di immaginare istituzioni come “famiglia”, “filiazione”, “genitorialità” e processi come la riproduzione, l’accudimento e l’allevamento, un riferimento alle conoscenze scientifiche sedimentatesi nel corso di 150 anni di ricerca antropologica possa contribuire a rendere il dibattito pubblico nazionale meno dipendente da riduzionismi, anacronistiche schematizzazioni e implicite polarizzazioni ideologiche.

Lo studio della riproduzione umana e delle istituzioni sociali che l’hanno resa e la rendono possibile è un aspetto costitutivo della scienza antropologica. Attraverso ricerche svolte in gruppi umani diversi da quelli occidentali e studi di carattere storico ed etnografico sulla nostra stessa società, l’antropologia culturale ha mostrato l’estrema variabilità e diversità dei modi attraverso i quali le società hanno istituzionalizzato, regolato e quindi conferito senso ai meccanismi riproduttivi, alle forme di organizzazione della sfera domestica, ai rapporti di discendenza e parentela, agli scambi matrimoniali, ai modi di indicare, denominare e computare “consanguinei” e “affini”. Detto altrimenti, pace Salvini: esistono mondi (quello di Eschilo, ad esempio) in cui “non la madre è la generatrice di quello che è chiamato suo figlio: ella è la nutrice del germe in lei seminato. Il generatore è colui che la feconda: e lei, straniera a straniero, salva il germe, quando un dio non l’abbia già distrutto”. Così come ve ne sono altri nei quali è il genitore maschio a non essere riconosciuto come “padre”, essendo necessario per il concepimento di un essere umano che lo spirito di un antenato, preventivamente passato nel corpo della madre attraverso l’alimentazione, si sia reincarnato nel feto. Conosciamo mondi – non così rari, poi, o così lontani da noi – in cui donne partoriscono figli per conto di altre donne, che di quei bambini divengono madri a tutti gli effetti; nobili europei che donano un loro figlio maschio non primogenito a rappresentanti di casati che rischierebbero altrimenti di estinguersi o principesse africane che sposano altre donne, dalle quali sono considerate “mariti”, e che divengono madri dei figli partoriti dalle loro mogli. Ci sono anche bambini che non hanno “né padre, né madre”, ma riconoscono legami affettivi e domestici con coloro che li hanno concretamente nutriti.

Ad uno sguardo antropologico appare dunque chiaro che far nascere non trasforma i soggetti in genitori e al contempo non basta nascere per diventare figli. Il legame di filiazione deriva infatti dal riconoscimento legale e sociale del bambino/a appartenente a un determinato gruppo sociale, quali che siano i genitori biologici. Ciò significa che sempre più spesso, anche nel senso comune occidentale, il padre sociale, il quale garantisce al figlio/a una collocazione e uno status legittimi, non è sempre colui che lo ha generato intrattenendo un legame biologico con il nuovo nato/a; la madre a sua volta non è sempre ritenuta avere un legame di “sangue” con il figlio/a, anche se lo ha partorito. Osservando le trasformazioni che hanno investito i modi di fare famiglia, di costruire le filiazioni e di esercitare la genitorialità nelle società contemporanee, si colgono quindi processi ed esperienze che hanno contribuito alla moltiplicazione delle forme familiari, alla pluralizzazione dei legami e delle soggettività parentali. Famiglie e parentele manifestano apertamente il progressivo allontanamento dal modello nucleare coniugale, basato sulla coppia eterosessuale, sposata, monogamica e con figli/e.

Un modello, questo, non “naturale” – come viene dichiarato nei dibattiti politico odierni – ma costituitosi nel corso di una storia di lunga durata, durante la quale hanno giocato un ruolo decisivo vari fattori: la capacità immaginativa e l’intuizione sociologica di pensatori/santi, come Pier Damiani e Tommaso d’Aquino, capaci, a quel tempo, di pensare strutture sociali innovative, diverse da quelle ancora presenti nel mondo nobiliare medievale e più in linea con le dinamiche economiche del futuro Rinascimento occidentale; la forza politica della Chiesa romana, in grado di imporre (tra XII e XVIII secolo) quel suo nuovo modello alle diverse fasce sociali; e non ultime le retoriche del nazionalismo Otto-Novecentesco, interessate ad associare in un vincolo ideologico pronto a scivolare sul piano inclinato dei fascismi, nazione, riproduzione, famiglia, attraverso il controllo e la manipolazione simbolica del corpo femminile.

Nella contemporaneità, le dinamiche demografiche, quelle economiche, la revisione dei rapporti di genere e fra le generazioni, l’apparire di nuove concezioni etiche e del diritto, le possibilità indotte dalle pratiche mediche di procreazione medicalmente assistita hanno disarticolato quel modello e le istituzioni che lo sostenevano (che lo sostengono), erodendo così i nostri modi di immaginare lo spazio delle relazioni matrimoniali, genitoriali, familiari e parentali e gradualmente modificando lo stesso senso comune. In particolare, le innovazioni tecnologico-scientifiche hanno spinto definitivamente la filiazione oltre il legame biologico costringendoci a rivedere il rapporto, per noi storicamente ovvio, tra dimensione “naturale” e costruzione culturale dei fatti biologici nei processi procreativi; e invitandoci a guardare con sensibilità antropologica e interesse ai modi in cui altri mondi culturali hanno immaginato le possibilità di costruire forme di reciproca compartecipazione tra esseri viventi. Le famiglie attuali – quelle che, come scienziati sociali, studiamo nelle diverse contemporaneità urbane – esprimono un’accentuata divaricazione fra l’immagine della famiglia fondata sul vincolo di «sangue e di legge» e la famiglia espressione di scelte personali radicate nell’affetto e nell’assunzione di responsabilità e di cura.

Fra le nuove forme del fare famiglia, quelle omogenitoriali interpretano in modo più visibile le trasformazioni che hanno investito la vita familiare nel suo complesso e manifestano, nonostante il superamento dell’eterosessualità, aspetti comuni e condivisi come il primato della dimensione affettiva e della scelta individuale, la centralità della coppia nell’elaborazione del desiderio di genitorialità, il ruolo proiettivo del bambino/a nella vita del soggetto adulto, il ricorso alle tecnologie mediche per costruire la propria filiazione. Il Certificato Europeo di Filiazione rappresenta il tentativo di uniformare le procedure di riconoscimento dei figli/e e mira a conservare i diritti familiari in tutti i Paesi dell’Unione, ben oltre l’ambito delle filiazioni omogenitoriali in quanto comprende relazioni di genitorialità, ad esempio l’adozione da parte di persone singles, vietate in Italia. A fronte di dinamiche sociali e politiche sempre più evidenti e pressanti, la non ratifica del Certificato implica – a nostro modo di vedere – la volontà di negare di fatto rappresentanza politica e riconoscimenti giuridici ai soggetti coinvolti nelle trasformazioni in atto e tradisce la difficoltà a separarsi, oggettivandoli, da modelli culturali che mostrano significative linee di frattura.

I figli/e delle coppie omogenitoriali sono di fronte alla legge italiana figli/e di un solo genitore, quello biologico, salvo riconoscimento da parte dei giudici, che resta pur sempre un procedimento discrezionale con una procedura tutt’altro che semplice e immediata. Possono trascorrere diversi anni perché il genitore sociale sia riconosciuto come genitore idoneo e legittimo, nel frattempo la famiglia rimane in un limbo dove i minori non hanno pienamente gli stessi diritti civili e sociali degli altri bambini/e. Non a caso la Corte di Cassazione ha segnalato la necessità di garantire a tutti i minori la tutela e la cura di cui hanno bisogno, cosa che, nel caso delle famiglie omogenitoriali, significherebbe riconoscere a pieno titolo anche il genitore sociale che al pari di quello biologico ha partecipato alla nascita e alla crescita del bambino/a: dimostrazione che la genitorialità non dipende esclusivamente da scelte procreative ma è espressione diretta di relazioni di affetto, cura, responsabilità, amore. Nessun danno ne risulterebbe, del resto, alle famiglie di diversa impostazione e storia, né il riconoscimento dei diritti a figli già nati influirebbe in alcun modo su una pratica che potrà e dovrà essere regolamentata, ma che è ormai stata generalmente accolta nell’etica pubblica. Per di più, il riconoscimento di diritti ad alcuni nulla toglie a chi già questi diritti li ha.

La riduzione delle complesse trasformazioni e della molteplicità delle dinamiche familiari, parentali, matrimoniali, o di quelle della genitorialità omosessuale, alla sola surrogacy (maternità surrogata o, nel lessico materialmente naturalistico delle destre, “utero in affitto”) ha l’effetto di impedire una corretta analisi delle trasformazioni in atto nella famiglia e nella società più ampia e di non cogliere la complessità di situazioni relazionali, affettive ed emotive che vengono innescata dalla stessa pratica di surrogacy. Numerose ricerche empiriche, infatti, mostrano come il ricorso alla surrogacy sia soprattutto di coppie eterosessuali che, a differenza di quelle omosessuali, possono rendere invisibile e neutralizzare il contributo delle terze parti procreative (donatori di gameti e gestanti). Inoltre, occorre distingue tra differenti pratiche di surrogacy non tutte leggibili nel segno dello sfruttamento economico del corpo femminile. Ad esempio, nel caso delle coppie genitoriali maschili, la ricerca ha portato alla luce relazioni di stampo para-familiare con la gestante e/o con la donatrice, ovvero con le figure di genere femminile che hanno consentito la nascita di un figlio/a a due padri. In questi casi lungi dal configurarsi come pratica alienante, la scelta di procreare per altri assume il tratto del dono, della compartecipazione ad un progetto di famiglia fondato sull’affetto. Sia nel caso delle filiazioni femminili che di quelle maschili, nell’ambito dell’omogenitorialità prevalgono scelte fondate sulla trasparenza, sul diritto dei figli/e a sapere tutto del percorso che li ha portati a nascere, accolti e accuditi da affetti in nulla e per nulla diversi da quelli biologicamente rilevanti. Chi conosce, per averle studiate, le famiglie omogenitoriali tende a trarne una visione lontana da quella che anima le retoriche, le decisioni, le azioni e le omissioni dello Stato. Omissioni attuali, come quella dalla quale ha preso il via il dibattito di questi giorni, ma anche di un recente passato, quando si è ritenuto di fare scelte al ribasso, neutralizzando in via compromissoria gli effetti attesi dalla legge (Comunemente conosciuta come Legge Cirinnà del 2016) che ha istituito le unioni civili con lo stralcio del diritto di genitorialità per il genitore sociale (Stepchild adoption).

A fronte di un simile scenario, la SIAC sente l’urgenza di portare un contributo al dibattito pubblico auspicando un superamento degli steccati ideologici entro i quali è attualmente confinato il confronto. Ritiene inoltre che solo uno scambio aperto e competente sulle complesse questioni riguardante la famiglia e la filiazione, qui solo accennate, possa consentire di tenere nella giusta considerazione le richieste di riconoscimento giuridico delle nuove forme di famiglia e di genitorialità, fra le quali quelle rappresentate dalle famiglie omogenitoriali. La SIAC si impegna in tal senso a promuovere pubbliche occasioni di dibattito e si rende disponibile a partecipare a focus, dibattiti e pubbliche occasioni di confronto.

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