Panel 33

I modi della riabilitazione: ricostruire la persona, progettare il sociale

Panel 33 / Quarto Convegno Nazionale SIAC “Il ritorno del sociale”, Sapienza Università di Roma, 21-22-23 settembre 2023

Proponenti: Silvia Vignato (Università di Milano – Bicocca), Francesca Cerbini (CRIA / Universidade do Minho), Caterina Sciariada (Università di Milano – Bicocca)

Abstract

“Riabilitazione” è una potente nozione operativa, trasversale a molte discipline, di progettazione individuale e sociale. L’idea di riportare un soggetto sofferente, manchevole o incapacitato a un precedente o desiderabile stato di “abilità” coniuga infatti ideali performativi, relazionali e morali con l’identificazione delle modalità atte a realizzarli. Costituisce dunque un campo di osservazione della costruzione degli ordini sociali istituiti ma anche informali, oppositivi o marginali, e dei soggetti che vi si relazionano. A partire dalla ricerca etnografica, nel panel si presenteranno e discuteranno le forme di riabilitazione pensate e praticate per categorie diverse di persone (es. carcerati, tossicodipendenti, ex-combattenti, sfollati, disabili, malati, peccatori/peccatrici o persone ostracizzate), nell’ambito di istituzioni sociali specifiche (es. l’istituzione penitenziaria, che si giustifica tramite la necessità di trasformare soggetti criminali in cittadini produttivi e innocui) e regimi normativi diversi (es. statali, consuetudinari, religiosi) che organizzano la compagine sociale. Si presterà particolare attenzione al processo di ridefinizione di sé che diventare soggetti socialmente integrati comporta o a cui costringe e ai casi di mancata, imparziale, o negata riabilitazione (es. ergastolani), così come alle forme di negoziazione e adattamento capaci di mettere in dialogo diverse temporalità, un ordine prestabilito e l’agency del soggetto.

Keywords: riabilitazione, carcere, disabilità, esclusione, soggetto

Lingue accettate: Italiano / English

 

Sessione I

Giovedì 21/9/2023, ore 14.30-16.15, aula De Martino, Quarto piano

Discussant: Silvia Vignato (Università di Milano Bicocca)

Claudia Ledderucci (claudia.ledderucci@unito.it) (Università di Torino), Mi arruolo, dunque sono. Percorsi di riabilitazione attraverso l’arruolamento militare in Polinesia francese

Ogni anno, circa 800 ragazzə polinesianə si recano alla Base di Difesa di Arue, Tahiti, per firmare i loro contratti di volontariato presso l’ufficio reclutamento del Service Militaire Adapté (SMA), e cominciare una nuova fase della loro vita. L’SMA è un programma militare a vocazione educativa e professionale presente in tutti gli oltremare francesi, il cui obiettivo è quello di aiutare giovani in particolari situazioni di difficoltà sociale e professionale. Questo dispositivo nazionale è rivolto ad una particolare categoria, i giovani in difficoltà, che spesso ricalca l’origine etno-culturale dei partecipanti. L’SMA è presentato dalle istituzioni proponenti, e visto dai suoi partecipanti, come un vero e proprio trampolino che permetterebbe ai giovani (analfabeti e in situazione di abbandono scolastico) di inserirsi nel mondo del lavoro attraverso un percorso assistenziale di riabilitazione fortemente basato sull’autodeterminazione e paternalisticamente incentrato sul merito dei giovani volontari. Nonostante la natura di tale dispositivo lo predisponga alla regimentazione e al controllo di una categoria definita a rischio e che potrebbe potenzialmente porre problemi di ordine sociale e securitario, l’SMA è spesso utilizzato dai volontari che vi partecipano come possibilità di riuscita e meccanismo redentore attraverso cui ridefinire se stessə e riabilitarsi agli occhi della società diventando cittadini responsabili e produttivi.

Martino Miceli (martino.miceli@ehess.fr) (Centre Norbert Elias), Culture della pena o pene culturali? La riabilitazione del soggetto deviante in Nuova Caledonia

In Nuova Caledonia, collettività d’oltremare francese del Pacifico meridionale, la delinquenza giovanile sembra divenuta ormai da alcuni anni una vera e propria piaga sociale. Il fenomeno si accompagna di un preciso discorso pubblico sullo sradicamento culturale. Questa “perdita di riferimenti” è individuata come all’origine di quelle stesse pratiche sociali di banda, in primis il furto d’auto compiuto ai danni dei discendenti dei coloni europei, per le quali i giovani kanak sono sistematicamente arrestati, portati in tribunale, giudicati e inviati a scontare la loro pena nel penitenziario di Camp-est. Da qualche anno, però, a seguito delle ripetute denunce per sovraffollamento, il carcere sembra non potere più ospitare questa maschilità indigena in eccedenza. La soluzione è sempre più riposta nelle varie pene alternative a disposizione dei magistrati di sorveglianza, orientate all’apprendimento delle pratiche tradizionali da parte del deviante. Quale iato si manifesta però all’atto pratico tra l’enfasi riposta sulla ri-acculturazione del Sé e la risocializzazione del singolo nella propria comunità? In che relazione si pongono il politico, il culturale e l’economico rispetto all’ideologia della reintegrazione sociale che dovrebbe guidare il percorso di riabilitazione del condannato? E, infine, qual è il posto effettivo della “cultura” nel processo?

Alice Bellagamba (alice.bellagamba@unimib.it) (Università di Milano Bicocca), “Lo sai com’è la società”: forme differenziali di riabilitazione sociale nel Senegal meridionale

Nell’orizzonte morale fulfulde, “vivere assieme” è un lavoro di composizione quotidiana tra posizioni personali e aspettative collettive su come dovrebbe configurarsi il rapporto fra il singolo e la comunità. Il sentimento della “vergogna”, cioè la consapevolezza che gli altri sono al corrente delle proprie mancanze, è centrale al processo come ci ha insegnato Paul Riesman (1975) nella sua etnografia magistrale dei Peul Djielgobé nell’odierno Burkina Faso. Comparativamente il suo lavoro offre uno spunto per considerare, nel contesto fulfulde del Senegal meridionale, le pratiche quotidiane di riabilitazione sociale mobilitate per affrontare situazioni di “vergogna” tali che sembrerebbero risolvibili soltanto con l’allontanamento del soggetto dalla comunità. Sare Bourang è un villaggio fulbe di circa quattrocento persone. La sua caratteristica è di essere composto da un nucleo forte di famiglie d’origine nobile, che discendono dal fondatore, un certo Bourang, il quale, negli anni Quaranta del Novecento, scelse il sito per le sue potenzialità agricole e pastorali. Mentre per gli uomini (e le donne) anziane, capisaldi della vita familiare e comunitaria, si mettono in atto strategie di riabilitazione sociale che li riportano e mantengono al centro della vita relazionale, le mancanze degli uomini e delle donne giovani si risolvono con la mobilità geografica e il ricollocamento allo stesso tempo volontario e socialmente indotto in un altro contesto.

Virginia Signorini (virginia.signorini@yahoo.it) (Ricercatrice indipendente); Francesca Scarselli (Università di Siena), Perché il mondo là fuori non è come nel progetto. Parole, posture e pratiche che riabilitano e debilitano nei percorsi di accoglienza di donne richiedenti asilo e rifugiate

Negli anni del nostro lavoro come operatrici e coordinatrici, abbiamo ascoltato e detto molte cose nei colloqui in setting formali e informali con migranti e rifugiati/e, proponendo e monitorando percorsi socio-assistenziali, educativi, lavorativi. Concetti che – nel linguaggio degli/delle addetti/e ai lavori – vanno sotto l’ombrello (a dire il vero piuttosto bucherellato) dell'”integrazione”.  In questo contributo ci vogliamo interrogare su quali siano le parole, le posture e le pratiche che sottendono agli interventi che abbiamo negli anni osservato essere al centro di “interventi educativi ed integrativi”. Soprattutto, vogliamo interrogarci sul confine fra educativo e riabilitativo, e su come queste due categorie giochino in modo a volte perverso con la categoria della vittima, generando spesso cortocircuiti con serie ricadute per le persone accolte e per le operatrici e gli operatori stessi. Parole che intendono riabilitare, aiutare, sostenere e anche rieducare; parole che a volte assumono un potere diverso, colorandosi di quel razzismo delle piccole cose, nanorazzismo lo definirebbe Mbembe, dove noi, operatrici “bianche”, sappiamo cosa sia meglio per voi, vittime “nere”. In questo senso ci vogliamo riferire in gran parte alle esperienze con le beneficiarie donne richiedenti asilo, riflettendo in ottica intersezionale sulle parole usate nei colloqui e le pratiche di campo delle operatrici, delle assistenti sociali e del personale sanitario.

 

Sessione II

Giovedì 21/9/2023, ore 16.45-18.30, aula De Martino, Quarto piano

Discussant: Claudia Mattalucci (Università di Milano Bicocca)

Francesca Pistone (francesca.pistone@unifi.it) (Istituzione G.F. Minguzzi), “Rossella non deve cantare”. Etnografia di processi riabilitativi, tra mimetizzazione e agency

A partire dall’osservazione di ordinarie e significative scene socio-sanitarie in cui sembra materializzarsi il nucleo epistemologico del discorso riabilitativo e le inquietudini incorporate nel fare di un servizio sanitario territoriale per persone disabili, si vuole ragionare su come la tensione normalizzante occidentale, centrale nella nozione di persona come homo aequalis, abbia fortemente influenzato il modello medico-riabilitativo della disabilità, orientandolo in termini di aspirazione di somiglianza, piuttosto che di differenza. Attraverso un’etnografia svolta in un determinato contesto istituzionale (un centro diurno ASL) si vuole quindi riflettere, problematizzandole, sulle cornici storiche, simboliche e biografiche di pratiche di riabilitazione in corso, tra posture abiliste della ragione socio-sanitaria e tentativi di riorientare l’azione educativa in termini di riconoscimento e partecipazione, dentro una concezione relazionale del costrutto “disabilità”.

Marta Quagliuolo (marta.quagliuolo@unito.it) (Università di Torino), Oppositivi e ribelli: la riabilitazione dei ragazzi di mafia

Negli ultimi anni, i Tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Catania hanno iniziato a emettere provvedimenti di allontanamento di minori appartenenti a famiglie connesse alla mafia il cui sviluppo psico-fisico è ritenuto pregiudicato. I ragazzi vengono inseriti in strutture comunitarie, case-famiglia o famiglie al di fuori della regione d’origine, dove prendono parte al progetto Liberi di scegliere. L’obiettivo è quello di trasformare i ragazzi di mafia in buoni cittadini, cittadini desiderabili (Otzen 2015; Saada 2007; Read 1981), socialmente integrabili, attraverso delle “infiltrazioni culturali” che trasmettano i valori costituzionali. L’intervento dello Stato si pone dunque a confine tra l’individuale e il sociale, tra la costruzione della coscienza del singolo cittadino e della società futura. Sulla carta il progetto di “riabilitazione” prevede la costruzione di un percorso personale che rispecchi le esigenze del singolo e che, portando alla rielaborazione del proprio vissuto personale e all’accettazione di una forma di socialità alternativa rispetto a quella incorporata fino a quel momento, generi nei ragazzi di mafia un cambiamento psico-socio-culturale. L’intervento che propongo parte invece dall’etnografia svolta all’interno di una comunità socio-educativa: calando il progetto nella realtà, emergono da un lato la difficoltà dei ragazzi a essere lontani dai familiari e dall’altro le strategie per tentare di riappropriarsi di frammenti di libertà e intimità.

Stefano Onnis (esse.onnis@gmail.com) (Come un Albero APS ETS), L’Istituzione parziale, o del docile utente. La riabilitazione come dispositivo di controllo all’interno dei Servizi per Disabili Adulti

Il concetto di Istituzione parziale viene qui proposto sotto forma di ossimoro. Non si tratta, infatti, di quella totale, racchiusa un tempo in appositi luoghi dedicati al contenimento e a una governamentalità istituzionale prodotta da specifici apparati. Piuttosto, si tratta di luoghi apparentemente aperti, potenzialmente frequentabili da tutte e tutti, al di là di una specifica condizione di disabilità: un centro di socializzazione, un soggiorno estivo, un laboratorio integrato. Il principio della sussidiarietà dei servizi sociali pone oggi, almeno sulla carta, un ruolo fondamentale alle cooperative e alle associazioni di volontariato (spesso composte da genitori di persone con disabilità intellettiva), nella costruzione di un nuovo immaginario in cui la persona con disabilità sia al centro dei servizi e abbia un ruolo attivo di cittadino che usufruisce di questi servizi. Eppure, la carta diventa lettera morta, incompiuta, irrealizzata e irrealizzabile. A partire da una serie di esempi – raccolti sul campo, in Italia, durante un’etnografia di lungo corso – si vuole mettere in evidenza come le persone con disabilità intellettiva si ritrovino a diventare meri utenti da rendere docili, da governare, mantenere a distanza, da rinchiudere in una stanza di laboratori ludico-riabilitativi o in attività che ne disconoscono il loro essere persona, parte di un ingranaggio di un dispositivo socio-sanitario ben congegnato, meno violento di un tempo e più politicamente corretto.

Alberto Martinelli (a.martinelli23@campus.unimib.it) (Università di Milano Bicocca), Il futuro degli ergastolani. Una ricerca nel carcere di Opera

Il carcere, istituzione che nasce per sua definizione con l’intento della riabilitazione, vive al suo interno una dimensione esplicitamente contraddittoria: quella degli ergastolani. La pena dell’ergastolo è costruita infatti su un paradosso: attua un dispositivo di ridefinizione dell’identità mirato a generare un cambiamento che tuttavia non sarà mai possibile agire in un contesto diverso dalla reclusione. L’obiettivo della mia ricerca è quindi quello di analizzare quali siano le modalità di costruzione della personalità e della soggettività di questi individui, e se queste operazioni possano rientrare o meno nella categoria di “abilità”. I detenuti condannati alla pena perpetua, pur consapevoli del fatto che verosimilmente non conosceranno un’esistenza al di fuori delle mura del carcere, vivono alla costante ricerca di una forma di ridefinizione, non rassegnandosi al raggiungimento di uno stato di quiete, e costruiscono la loro temporalità cercando costantemente di dare ad essa un significato. Dall’altro lato l’azione dell’Istituzione e l’insieme di rappresentazioni che essa genera nella società e nelle politiche di recupero contribuiscono a costruire una precisa immagine del detenuto, incorniciata tra il ruolo di criminale e quello di vittima. Entrambe le posizioni, apparentemente opposte, hanno in comune la dimensione dell’alterizzazione rispetto alla società civile, che è inevitabilmente incompatibile con l’idea stessa di riabilitazione.

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