Panel 05

Etnografie degli archivi: esperienze e riflessioni sugli usi dei documenti

Panel 05 / Quarto Convegno Nazionale SIAC “Il ritorno del sociale”, Sapienza Università di Roma, 21-22-23 settembre 2023

Proponenti: Sofia Venturoli (Università di Torino), Santiago Manuel Gimenez (Università di Torino)

Abstract

In un libro sull’archivio, il passato e il silenziamento, Michel-Rolph Trouillot invocò una poetica del dettaglio e un approccio antropologico all’archivio-deposito. Ann Laura Stoler si spese affinché la ‘svolta archivistica’ si spogliasse della metafora estrattiva -ciò che si elimina e ciò che si accoglie per narrare il passato- per perseguire un esercizio etnografico. Se i dati etnografici possono essere lavorati come testi, gli archivi possono essere analizzati anche come ‘rituali di possesso’, e luoghi di contese. In questo panel vorremmo raccogliere esperienze e riflessioni sulle nuove direzioni che guardano a questo spostamento nella logica dell’indagine tra archivio e campo. Quali dimensioni di riflessione teorica e metodologica emergono negli approcci etnografici agli archivi (intesi anche come raccolte di documenti non istituzionalizzate presso le comunità), quali processi conoscitivi si sviluppano quando archivi e ricerca etnografica si intrecciano sul campo? Quali processi di articolazione e fruizione, inoltre, si mettono in atto da parte di gruppi, comunità e istituzioni statali di tali fonti? Intendiamo dunque accogliere riflessioni interessate alla dimensione teorico-metodologica delle etnografie che si rivolgono anche agli archivi come campi di indagine; esperienze di ricerca sulle modalità di fruizione e uso degli documenti scritti da parte di comunità in relazione a pratiche sociali volte alla riarticolazione memoriale, così come a strategie politiche.

Keywords: etnografia, archivi, comunità, decolonizzazione

Lingue accettate: Italiano / English / Français / Español / Português

 

Sessione I

Giovedì 21/9/23, ore 14.30-16.15, aula Supino Martini, Terzo piano

Discussant: Sofia Venturoli (Università di Torino)

Dario Basile (dario.basile@unito.it) (Università di Torino), La grande narrazione. Le migrazioni interne in Italia nelle immagini d’archivio

Dagli archivi fotografici, cinematografici e televisivi emerge un’impressionante convergenza nel racconto della grande migrazione interna in Italia. È come se tutti abbiano seguito per decenni lo stesso copione. Una sceneggiatura che peraltro assomiglia parecchio al racconto dell’immigrazione straniera di oggi (Gariglio et al. 2010). Quando analizziamo le immagini che rappresentano l’immigrazione dobbiamo dunque chiederci cosa ci dicono ma dobbiamo anche domandarci cosa non ci dicono. La fotografia è una fonte difficile e va maneggiata con cautela. Le immagini hanno una forza evocativa, sono affascinanti e appaiono come autoevidenti, sembrano non necessitare di ulteriori informazioni (Ortoleva 1991). Ma non è così. Per comprenderne il senso bisogna partire dalla considerazione che quell’immagine fa parte di un messaggio più complesso e per superare la sua illusoria evidenza occorre metterla in relazione con altri documenti, testimonianze orali, dati statistici e con gli esiti degli incontri etnografici (Signorelli 2006).

Luca Rimoldi (luca.rimoldi@unimib.it) (Università di Milano Bicocca), Le memorie contese. Archivi e memorie del lavoro operaio in un quartiere di Milano

L’Archivio storico delle Industrie Pirelli e le memorie degli ex-operai della multinazionale della gomma nel quartiere Bicocca di Milano sembrano raccontare versioni del passato molto diverse tra loro. Attraverso l’analisi etnografica di una serie di fonti d’archivio che ripercorrono la storia del fondatore dell’omonima azienda, dei prodotti, delle materie prime provo a mettere in luce le connessioni tra la storia dell’industria della gomma, quella di una famiglia di imprenditori e le trasformazioni neoliberiste del mercato del lavoro in Italia. Tali discorsi si intrecciano e danno vita, nella contemporaneità, a un paesaggio urbano periferico che conserva rimandi al suo passato industriale. Le fonti dell’archivio, tuttavia, non sono le uniche tracce dei fantasmi che popolavano il quartiere al tempo della ricerca. Infatti, se, oggi, la fabbrica è rievocata dall’Archivio come motore trasformativo dello spazio urbano, i racconti di alcuni ex-operai parlano di sfruttamento, contestazione, partecipazione politica e intendono il lavoro come struttura di possibilità per la costruzione di un futuro migliore. In questo senso, allora, il lavoro etnografico – lungi dal considerare fonti scritte e orali come mondi separati e discontinui – assume il ruolo politico di far rientrare nella storia una memoria collettiva prima del suo diluirsi a causa delle radicali trasformazioni delle fondamenta sociali che hanno reso possibile la loro trasmissione.

Antonino Sciotto (antonino.sciotto@uniupo.it) (Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro), Archivi ed etnografie digitali. Pratiche online e offline del movimento antagonista

L’archiviazione e l’utilizzo delle fonti storiche sono da sempre motivo di riflessione per archivisti e storici interessati alle modalità di conservazione e fruizione dei documenti. A fianco agli archivi materiali, già da diversi anni, acquistano sempre più rilevanza gli archivi web.
Il caso di archivio digitale più noto e corposo è quello di Internet Archive (IA), fondato nel 1996 negli USA e che si caratterizza per l’offerta di due servizi ai quali si può accedere tramite la Wayback Machine: la possibilità di navigare nel web storico attraverso un’imitazione del web live e quella di permettere all’utente di archiviare le pagine web di proprio interesse. L’archivio in questo modo si connota come un campo di ricerca nel quale pratica e osservazione sono scisse. IA, inoltre, si caratterizza come luogo di potere, in quanto mantenuto da donazioni esterne che mancando causerebbero la fine del progetto. Questo intervento prende in considerazione il rapporto tra pratica etnografica ed archivi digitali partendo dal caso del portale European Counter Network, legato al movimento “antagonista” degli anni ‘90 e 2000. L’obiettivo di questo paper è ricostruire l’universo di pratiche relative al sito e la sua storia attraverso una “etnografia digitale”, che tenga conto della dimensione online e di quella offline. La ricostruzione storica attraverso gli archivi digitali sarà associata ad un approccio etnografico che attraverso le interviste permetta anche ricostruzione memoriale.

Felipe Magaldi (femagaldi@gmail.com) (Federal University of Sao Paulo / Sao Paulo Research Foundation), Exiled testimonies: an ethnography of the Russell Tribunal II archives

This paper is a preliminary analysis of the experience of the Russell II Tribunal (TRII), an opinion tribunal held in Italy and Belgium between 1974 and 1976, which included first-hand testimonies from exiles and former political prisoners during the Latin American military dictatorships of the second half of the 20th century. It pays particular attention to the first session of the event, held in Rome, in 1974, when the Brazilians where the protagonists. The on-going research is based on the transcription of the testimonies, published in Brazil through Marcas da Memória project in 2014, as well as on the Historical Archive of the Basso Foundation (Rome, Italy), which holds the complete inventory. By ethnographically analyzing these materials, the objective is to understand the tone change from the revolutionary ideals to the grammar of human rights, taking into account the point of view of the witnesses in the mid-1970s. It is argued that this change did not happen in a linear, natural or progressive way, nor constituted a simple shift towards a neutral and depoliticized language. In fact, the coexistence of the revisionism of the armed struggle, the emphasis on the description of torture and the socialization of testimonies were the main elements to characterize these narratives.

Chiara Scardozzi (chiara.scardozzi@unibo.it) (Università di Bologna), Dal digitale al campo, andata e ritorno: pratiche di osservazione e condivisione di fotografie d’archivio con le comunità originarie del Gran Chaco

Tra il XIX e il XX secolo, nel momento in cui venivano “immortalate” attraverso il mezzo fotografico, le società native del Gran Chaco stavano vivendo radicali ed irreversibili cambiamenti delle loro forme di vita, a causa di processi di sterminio e invisibilizzazione, materiale e simbolica, da parte delle élite locali al potere. Le fotografie, prodotte a partire da situazioni coloniali variamente articolate, sono oggi conservate negli archivi (digitali e fisici) di missionari, musei di scienze naturali e sociali, istituzioni pubbliche e società scientifiche, o possedute da collezionisti privati. Anche nei casi in cui i corpora fotografici siano stati digitalizzati, permangono di difficile accesso per le comunità d’origine, escluse dal diritto di guardare e dal processo di conoscenza e interpretazione delle fotografie, che costituiscono una fonte documentaria imprenscindibile per lo studio della storia chaqueña e per la memoria collettiva. Quali sono le implicazioni politiche di queste rappresentazioni fotografiche oggi, e quale significato sociale rivestono per i discendenti delle persone ritratte? Dove inizia e dove finisce un archivio, nel momento in cui le immagini in esso contenute vengono condivise? Il contributo proposto connette la ricerca etnografica di lungo periodo nel Gran Chaco argentino, con le riflessioni sulle possibilità del visuale e del digitale in termini di restituzione e condivisione della conoscenza.

 

Sessione II

Giovedì 21/9/23, ore 16.45-18.30, aula Supino Martini, Terzo piano

Discussant: Santiago Manuel Gimenez (Università di Torino), Fabiana Dimpflmeier (Università di Chieti-Pescara)

Anna Bottesi (anna.bottesi@unito.it) (Università di Torino), Archivi (ri)appropriati archivi viventi fra i Kambeba dell’Alto Rio Solimões (Amazzonia brasiliana)

Negli incontri e nelle conversazioni avvenute nell’ambito di una ricerca su due collezioni etnografiche provenienti dall’Amazzonia brasiliana, gli archivi hanno spesso acquistato rilevanza come spazi di conservazione di storie e pratiche legate a un passato talvolta assopito. Al pari di altre istituzioni occidentali europee, anche gli archivi vengono associati, dai rappresentanti dei popoli indigeni, al processo coloniale e alla produzione di una conoscenza egemonica; tuttavia, la loro esistenza ha permesso la preservazione di documenti che possono contribuire significativamente ai movimenti di resistenza politica e culturale delle varie comunità nel presente. Obiettivo di questa presentazione è riflettere sulle modalità attraverso cui alcuni gruppi indigeni dell’Amazzonia brasiliana si appropriano della dimensione fisica e concettuale dell’archivio rielaborandone i contenuti e le forme. In termini di appropriazione fisica, salta agli occhi il desiderio di rientrare in possesso di documenti prodotti durante viaggi e spedizioni di epoca coloniale e/o imperiale, in virtù del potenziale che detengono nel sostenere la rivendicazione del diritto alla differenza etnica. In termini di rielaborazione concettuale è interessante soffermarsi sulla nozione di “arquivos vivos” per indicare quelle persone detentrici di particolari conoscenze legate alla memoria della comunità e la cui trasmissione è fondamentale per il mantenimento e la riproduzione di un’identità condivisa.

Erika Grasso (erika.grasso@unito.it Università di Torino), Etnografia di un archivio che non c’è: silenzi, oggetti e immagini dal Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino (MAET)

Le attività di digitalizzazione e riordino del patrimonio etnografico, fotografico e archivistico del Museo di Antropologia ed Etnografia dell’Università di Torino recentemente hanno permesso di avviare processi di studio e riconoscimento di manufatti, immagini e documenti che testimoniano interessi e approcci alla diversità culturale che, se osservati in senso critico, offrono un interessante saggio del rapporto tra la comunità nazionale italiana e l’alterità. I depositi e l’archivio storico del MAET emergono come spazi caratterizzati, non solo da presenze “altre”, ma anche da numerose assenze. L’etnografia condotta seguendo le pratiche museali recenti e del passato e la ricostruzione delle vicende legate al Museo, infatti, restituisce l’immagine di un archivio incompleto, oggetto di oblio e distruzione negli anni intercorsi tra il post-fascismo e i giorni nostri. L’intervento vuole proporre una riflessione critica riguardo al ruolo dell’assenza di dati di archivio nella mappatura delle idee e delle pratiche riguardanti il patrimonio, in particolare nelle dimensioni dell’approccio alla diversità culturale e del riconoscimento di quelle soggettività legate o provenienti a contesti coloniali ed extraeuropei che oggi, parte della comunità nazionale, possono in esso riconoscersi e ri-definirsi.

Milena Annecchiarico (milargenta@gmail.com) (Universidad de Buenos Aires), Reti scientifiche, pratiche culturali e materialità afrodiasporiche in contatto: un’analisi della collezione Nestor Ortiz Oderigo di Buenos Aires

Proponiamo un’analisi della collezione Néstor Ortiz Oderigo, conservata nell’Instituto de Antropología y Pensamiento Latinoamericano di Buenos Aires. Si tratta di un particolare quanto sconosciuto archivio di materialità afrodiasporiche di diverso tipo (libri, documenti storici e personali, dischi e oggetti etnografici) riunito in vita dallo studioso argentino Nestor Ortiz Oderigo. Ci interessa interrogare l’archivio preso in considerazione come un esercizio etnografico, contraddistinto da un’azione rituale immerso in relazioni di potere che vogliamo esplorare in due direzioni. Da un lato, percorreremo la traiettoria dell’archivio, da collezione privata a patrimonio nazionale, riflettendo sulle ambivalenze, potenzialità e criticità del processo di patrimonializzacione. In secondo luogo, esploreremo la collezione come un archivio di materialità e saperi afrodiasporici, e come un archivio di pratiche intellettuali e disciplinari latinoamericane. In questo modo, rifletteremo sui processi di produzione e circolazione di artefatti, saperi e pratiche scientifiche nei/dai contesti latinoamericani, in dialogo con gli studi che riflettono sulle rappresentazioni degli afrodiscendenti in termini di assenze, invisibilizzazioni e stereotipazioni, un terreno particolarmente fertile per comprendere le relazioni tra cultura, razzializzazione, ideologia e nazione in America Latina, particolarmente in Argentina.

Carlos Zanolli (cezanolli@hotmail.com) (Universidad de Buenos Aires), La capacidad agentiva de los documentos

En el marco de las Rebeliones del siglo XVIII en el virreinato del Perú, Juan Santos Atahualpa,  manifestó que su autoridad se derivaba del Espíritu Santo, que le había entregado el corazón a su padre, quien a su vez «dándole un Testimonio en un Pliego, lo declaró por Monarca de este Reyno con superioridad á todos los Reyes» (San Antonio, 1745: s/p). Tupac Katari, dirigente rebelde,  indicó en su confesión que: “Había levantado sublebazion […] por facultad que le dispensó un Catari, por unos Papeles que le dió en el Pueblo y altos de Sapaqui confiriendole por ellos el titulo de Virrey  combinando a los yndios, y Pueblos por cartas Circulares, que hizo escrivir con su amanuense Andres Gualpa,  haciendoles ber que por dichos papeles le tocaba erijirse en Caveza” (Huerto Vizcarra, 2017, 4:377-378). Si bien tanto los pliegos a los que hace referencia Juan Santos, como los papeles que menciona Katari hoy son entendidos como una mera herramienta informativa, en el pasado colonial no parece haber sido así. Por el contrario, habrían tenido otra entidad, por la que parecen tener una existencia propia, diferente de las personas, y posiblemente superior. En el pasado andino colonial los documentos tendrían capacidad agentiva, erigiendo líderes como en los dos casos presentados. En tal sentido, la presente ponencia tiene por objetivo analizar otras posibles entidades que tienen/adquieren los “documentos” conforme las sociedades en las que están insertos.

Nicola Martellozzo (nicola.martellozzo@unito.it) (Università di Torino), Dall’Alpi alle piramidi, e ritorno: un rapporto preliminare sull’archivio “mancato” di Sparone

La catalogazione dei beni DEA presenti nella fucina dei mestoli di Sparone (Piemonte) ha portato alla luce una considerevole quantità di documenti relativi alla famiglia Aimonetto, che per almeno tre generazioni è stata proprietaria del piccolo laboratorio metallurgico. Anche l’ultimo dei magnin – fabbri esperti nella lavorazione dello stagno e del rame – viventi di Sparone (e di tutta la Valle Orco) venne “a bottega” in questa fucina abbandonata ormai da decenni, e ora al centro di un travagliato progetto di musealizzazione. Lo testimonia bene il caso di questo archivio, “mancato” sia per l’assenza di qualunque forma di riconoscimento istituzionale, sia per la perdita di una buona metà della documentazione. Ciò che resta, tuttavia, si è dimostrato fondamentale per ricostruire una memoria del luogo e degli oggetti presenti nella fucina, altrimenti inaccessibile alla sola indagine di campo. La presente relazione costituisce pertanto un primo tentativo di sistematizzare questa storicità frammentata, attraverso le vicissitudini della famiglia Aimonetto nella prima metà del Novecento; attraverso una selezione dei documenti verrà ricostruito l’intrecciarsi delle vicende personali di questi fabbri piemontesi con l’esperienza coloniale italiana in Africa tra le due guerre mondiali. Simili biografie, emerse nel dialogo tra i pieni e i vuoti di questo archivio mancato, rappresentano l’occasione per una valorizzazione comunitaria concreta del progetto museale.

 

Sessione III

Venerdì 22/9/23, ore 9.00-10.45, aula Supino Martini, Terzo piano

Discussant: Javier González Díez (Università di Torino)

Martina Giuffrè (martina.giuffre@unipr.it) (Università di Parma), Il ruolo delle donne come mediatrici culturali nella migrazione eoliana in Australia nei documenti d’archivio pubblici e privati

Durante la mia ricerca mutisituata presso gli Eoliani migrati in Australia (1998-2003), ho lavorato con le storie orali e i documenti d’archivio come documenti visivi (foto d’epoca, di famiglia, di occasioni sociali di incontro, dei primi tempi in Australia, ecc.), audio-visivi, documenti personali come passaporti, certificati di naturalizzazione, corrispondenze pubbliche e private, articoli di giornale, materiale delle associazioni eoliane in Australia, siti di associazioni e gruppi social, pubblicazioni a carattere religioso. Da questi documenti è emerso l’importante ruolo delle donne come mediatrici culturali. Tra le donne eoliane spicca, grazie alla collezione a lei dedicata e depositata presso la Italian Historical Society del Coasit di Melbourne, la figura di Lena Santospirito, mediatrice per eccellenza, chiamata la “mamma degli italiani”, punto di riferimento dal 1938 agli anni del secondo dopoguerra per tutta la comunità italiana d’Australia.

Daniela Salvucci (daniela.salvucci@unibz.it) (Libera Università di Bolzano), Archivi Malinowski e storie di famiglia: riflessioni etnografiche femministe e controversie accademiche

A partire dalla ricerca etnografica e archivistica in corso sulla presenza della famiglia Malinowski a Bolzano e Soprabolzano negli anni 1920 e 1930 e sulla relazione di collaborazione lavorativa tra Bronislaw Malinowski (1884-1942) e sua moglie Elsie R. Masson (1890-1935), vorrei riflettere sulla complessa relazione tra archivi malinowskiani, storia dei Malinowski, memorie locali, approcci femministi e di genere alla storia dell’antropologia e controversie accademiche. Da un lato metterò in luce le difficoltà, ma anche le potenzialità, di una lettura delle fonti archivistiche sulla vicenda dei Malinowski in Alto Adige/Südtirol alla luce delle memorie contemporanee e delle storie delle famiglie locali. Dall’altro, mi concentrerò sull’efficacia delle prospettive critiche etnografiche e femministe nella ricerca d’archivio per far emergere il ruolo che, pur senza un reale riconoscimento pubblico, Elsie R. Masson ha svolto nella produzione antropologica e nella carriera accademica del marito. Questo ultimo tema, infine, mi permetterà di riflettere sui possibili usi, ma anche abusi, dei documenti nelle controversie accademiche sui padri fondatori e sulle genealogie intellettuali nella storia della disciplina.

Chiara Calzana (c.calzana@campus.unimib.it) (Università di Milano Bicocca), Dal terreno agli archivi. Etnografia, ricerca d’archivio e pratiche di archiviazione al Vajont

Con un procedimento inverso rispetto a quello operato da N. Wachtel, che titolava i suoi saggi di antropologia storica “Des archives aux terrains”, nell’ambito della mia ricerca al Vajont la pratica etnografica – con la conoscenza di territori, persone e memorie vive – è stata presupposto fondamentale per l’ingresso negli archivi che conservano tracce del passato. Oltre che luoghi dove trovare informazioni, gli archivi sono stati oggetto e terreno di ricerca, nel tentativo di comprendere le logiche sottese alla creazione e archiviazione dei documenti. I fondi documentali “ufficiali” che raccontano la storia del Vajont sono tasselli sparsi di un patrimonio documentale frammentato e spesso di difficile fruizione. Ma i documenti si trovano anche altrove: le case dei superstiti del Vajont custodiscono dei veri e propri archivi domestici ricchi di carte, immagini, ritagli di giornali, scritture private ed ego-documenti. Questi sono la materia con cui la testimonianza si corrobora e si rafforza. Talvolta mostrati, sempre evocati, i documenti raccolti contribuiscono attivamente alla costruzione della narrazione del proprio passato – spesso una narrazione diversa (nel contenuto, ma soprattutto nella forma) da quella “ufficiale” degli archivi istituzionali. La mia riflessione sugli archivi si è arricchita quando sono stata chiamata a coordinare un progetto locale per la creazione di un archivio pubblico di testimonianze orali: come procedere per custodire e valorizzare queste memorie?

Alessandra Gribaldo (alessandra.gribaldo@unimore.it) (Università di Modena e Reggio Emilia), Un’etnografia dei “filmini” di famiglia: L’archivio Home Movies a Bologna

Il mio contributo riguarda una riflessione teorica e metodologica su una possibile etnografia di un archivio di film di famiglia amatoriali. L’archivio Nazionale Home Movies a Bologna, di recente divenuto Fondazione, si presenta come spazio stratificato e denso in cui sperimentare l’approccio antropologico all’archivio. I fondi di famiglia in pellicola archiviati e (parzialmente) digitalizzati provengono da diversi luoghi del paese e risalgono a decenni diversi, a partire dagli anni ’20. Mi interessa nello specifico indagare le peculiarità dei film di famiglia per analizzarli non tanto nelle loro eccezioni e specifiche rilevanze, ma attraverso una lente che tenga conto delle poetiche, dei codici, della normatività, della rappresentazione del sé delle relazioni parentali e di intimità, del quotidiano. Genere marginale quasi per definizione, gli home movies sono legati meno alla storia del cinema quanto agli album di famiglia, al ricordo e alla memoria. L’emergere di nuove sensibilità etnografiche in antropologia rappresenta la possibilità di dare un nuovo senso a questo specifico archivio. La specificità degli home movies li avvicina significativamente al lavoro inedito dei diari di campo, alle pratiche etnografiche sperimentali, nel loro “eccesso di dettaglio”. La dimensione visiva aggiunge ulteriore complessità incrociando le riflessioni dell’antropologia visuale.

Pietro Repishti (pietro.repishti@universitadipavia.it) (Università di Pavia), Documenti orali e fonti scritte in Africa occidentale: l’archivio di famiglia come costruzione processuale

L’utilizzo di materiali provenienti da archivi di famiglia si è dimostrato essenziale per lo studio della storia coloniale e pre-coloniale in Africa. Tuttavia non sono sempre state adeguatamente analizzate le strategie e le finalità dei materiali contenuti, nonché le modalità della loro conservazione e trasmissione. Nello studio della storia di Porto-Novo (Bénin) mi sono spesso imbattuto in micro-archivi composti da testi prodotti tra il 1970 e il 2000 da capi di famiglia o anziani al fine di preservare all’oblio storie sulle origini mitiche delle famiglie e delle loro divinità vodun. Questi documenti, conservati in forma di fotocopie, riscritti e spesso incompleti, traggono origine da narrazioni trasmesse oralmente. Tuttavia sono stati influenzati da testi di storia dell’editoria coloniale degli anni 1930-1950 nonché da materiali sottratti agli Archivi Nazionali. I racconti orali che oggi si possono ascoltare nelle famiglie sono in buona parte basate sui documenti prodotti e conservati negli archivi familiari. Le contraddizioni scaturite da queste due fonti (orale e scritta) aprono a riflessioni sulle strategie di conservazione della memoria locale, sul valore spurio del testo scritto e sulle modalità di riformulazione della storia orale nonché sulla contesa riguardo il possesso di questi materiali. Come usare questi materiali nella ricerca storica e antropologica? Che valore hanno per la comunità che li detiene? Come leggere le incongruenze tra differenti narrazioni?

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